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Divario di genere

Divario di genere

Una lettura storica del mercato del lavoro

Di Marinella Perrini

Non c'è dubbio che la crescita delle ore lavorate dalle donne negli ultimi 30 anni sia uno dei fenomeni più importanti del mercato del lavoro. Come si ricorda anche nell’ultima relazione di Banca d’Italia: I divari di genere nel mercato del lavoro italiano, sebbene inferiori rispetto al passato, continuano a collocare il nostro Paese in una posizione arretrata nel confronto con le altre principali economie europee. Nel 2022 il tasso di occupazione femminile era inferiore di 18 punti percentuali rispetto a quello maschile; inoltre, le donne occupate hanno più di frequente impieghi di tipo temporaneo e part-time, anche se una lavoratrice a tempo parziale su due sarebbe disponibile a lavorare a tempo pieno. La minore quantità di lavoro, insieme a retribuzioni orarie più basse, si traduce in redditi annui mediamente inferiori a quelli degli uomini.

All’inizio degli anni Novanta, poco più di una lavoratrice su 10 era occupata a tempo parziale, nel 2022 la percentuale è salita a circa il 32% (per gli uomini dal 2,4 al 7,7%).

Nel mercato privato, la crescita del part-time e dei contratti a tempo determinato si è tradotta in un calo del numero medio di settimane lavorate all’anno per occupato più forte per le donne che per gli uomini. Il differenziale di genere in termini di unità di lavoro a tempo pieno si è ampliato, passando dal 7% all’inizio degli anni Novanta a quasi il 15% nel 2021.

Tuttavia, le retribuzioni orarie femminili sono mediamente più basse di quelle maschili, il divario nel settore privato si è progressivamente ridotto negli ultimi 30 anni, ma resta a circa l’11% nel 2021. Utilizzando i dati Inps sull’universo dei lavoratori italiani nel settore privato, resi disponibili grazie al programma di ricerca Vistinps, Casarico e Lattanzio[1] mostrano che a partire dall’inizio degli anni Settanta, il differenziale di genere medio nei salari lordi annuali per i lavoratori full-time è sceso dal 33% al 21% del 2017.

Gli stessi autori, utilizzando un campione dei dati dei lavoratori privati Inps, ottengono una stima della child penalty di lungo periodo tra il 1985 e il 2016. In particolare, descrivono le traiettorie dei salari annuali e settimanali, del numero di settimane lavorate e della percentuale di donne che ricorrono al part-time, nei cinque anni antecedenti e nei quindici successivi all’anno del congedo maternità (confrontando tali risultati con donne impiegate nel mercato privato ma che non hanno avuto figli). I loro risultati sono che a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita (ossia, i loro salari sono inferiori del 53 per cento).

I salari settimanali sono di 29 euro inferiori (6 per cento in meno rispetto alle donne senza figli), le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e la percentuale di donne con figli con contratti part-time è quasi tripla rispetto a quelle senza figli. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio. Uno “shock” da cui le donne non si riprendono (Casarico Lattanzio 2019).

 

[1] Casarico e Lattanzio, 2019, workinps paper N 24