Fallimento e ispezioni: il ruolo del curatore – datore di lavoro/1

L'istituto del “fallimento” è regolato dal R.D. n. 267 del 16/03/1942 (Legge Fallimentare), disciplina che ha subito profonde modifiche.
Di Giovanni Greco
L'istituto del “fallimento” è regolato dal R.D. n. 267 del 16/03/1942 (Legge Fallimentare), disciplina che ha subito profonde modifiche per adeguarla al diritto nazionale e comunitario, in un'ottica non solo "punitiva", ma tesa a garantire la conservazione dell'impresa come complesso produttivo e la semplificazione ed accelerazione delle procedure. Nel rispetto di questi principi ispiratori, il disegno di legge di riforma, approvato in Senato l'11 ottobre 2017, delega il Governo ad adottare uno o più decreti per riformare organicamente la disciplina delle procedure concorsuali, della normativa sulla composizione della crisi e da sovra indebitamento. Tra i principi ispiratori più importanti del disegno di legge quello indicato nel punto b) art. 1 prevede la sostituzione del termine “fallimento” con “liquidazione giudiziale”.
L'articolo 42 della legge fallimentare è la prima norma concernente gli effetti del fallimento per l’imprenditore: "La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento".
Particolare importanza riveste la questione attinente la sorte dei rapporti di lavoro che siano ancora in essere alla data della dichiarazione del fallimento.
La norma architrave è l’art. 2119, comma 2, c.c. la quale statuisce che “non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda”.
In merito, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene applicabile l’art. 72 della Legge Fallimentare ai rapporti di lavoro pendenti che, quindi, entrano in una fase di quiescenza; ciò fino alla decisione del Curatore di subentrare o sciogliere il contratto, nel qual caso procedendo sempre e solo attraverso il licenziamento individuale (anche plurimo) per giustificato motivo oggettivo o attivando la procedura di licenzi manto collettivo ex artt. 4 e 24 della legge 223/1991.
Sul punto, poi, è intervenuta la Corte di Cassazione con una sentenza (14 maggio 2012, n. 7473) nella quale il Supremo Collegio ha statuito che “per effetto della dichiarazione di fallimento, in presenza di cessazione di attività aziendale, il rapporto di lavoro, pur essendo formalmente in essere, rimane sospeso fino al licenziamento; in difetto del requisito della sinallagmaticità non è quindi configurabile una retribuzione. Non essendovi obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa, non è nemmeno configurabile un credito contributivo dell’INPS, essendo peraltro irrilevante l’avvenuta ammissione al passivo del fallimento dei crediti retributivi dei lavoratori”.
Si può, quindi, affermare che in base all’art. 72 L.F. vigente il rapporto di lavoro in essere alla data di dichiarazione di fallimento entri in uno stato di quiescenza (Cass. Sentenza 28 agosto 2003, n. 12645), in cui alcun diritto matura in capo al lavoratore, primo fra tutti quello retributivo, attesa la sospensione del rapporto e delle relative reciproche obbligazioni.
Nel caso invece di esercizio provvisorio i contratti pendenti proseguono, ai sensi dell’art. 104, comma 8, L.F., determinando il subentro automatico in forza di legge del Curatore nei rapporti di lavoro pendenti senza soluzione di continuità.
Il subentro nei rapporti, sia ex art. 72 LF. che ex art. 104 della Legge Fallimentare, comporta pacificamente che tutti gli emolumenti maturati in tale periodo fino al licenziamento debbano essere pagati dal fallimento in prededuzione ex art. 111 L.F., in quanto sorti in occasione od in funzione della procedura concorsuale.
Inoltre, essendo il curatore un vero e proprio datore di lavoro, sarebbe chiamato, in caso di subentro nei rapporti, a porre in essere tutti gli adempimenti previsti dalla normativa vigente.